Pianeta Farmaco

mag192023

Belantamab mafodotin nel mieloma multiplo, i vantaggi rilevati dall'uso 'real life' all'Università di Padova

Nel trattamento del mieloma multiplo recidivato/refrattario (RRMM), la scoperta dell'antigene 'B-Cell Maturation Antigen' (BCMA) sulla superficie delle plasmacellule e la disponibilità del coniugato farmaco-anticorpo (MoAb) belantamb mafodotin (belamaf) - diretto a tale antigene - ha costituito senz'altro un importante momento di svolta, per medici e pazienti. I risultati ottenuti nello studio registrativo di fase 2 'Dreamm-2' - cui è conseguita l'indicazione del MoAb in monoterapia per il trattamento del mieloma multiplo nei pazienti adulti che hanno ricevuto almeno quattro terapie precedenti e la cui malattia risulta refrattaria ad almeno un inibitore del proteasoma, un agente immunomodulatore e un anticorpo monoclonale anti-CD38, e che hanno mostrato progressione della malattia durante l'ultima terapia - ha colmato un importante 'unmet clinical need', con il prolungamento significativo della sopravvivenza nei pazienti responsivi.
In seguito ai risultati del trial controllato randomizzato Dreamm-2, hanno fatto seguito molti studi osservazionali 'real life' in tutto il mondo, inclusi vari centri d'eccellenza italiani, al fine di confrontare gli esiti della sperimentazione clinica con quelli della pratica professionale quotidiana. A tale proposito, abbiamo chiesto al Prof. Renato Zambello, docente di Ematologia all'Università di Padova, di descrivere la sua esperienza con l'impiego di belamaf in questa popolazione di pazienti.
«Abbiamo in tutto poco più di una decina di casi, distribuiti in circa tre anni, in parte seguiti prima della commercializzazione del farmaco e altri invece successivamente» dichiara Zambello. «Dopo i primi casi meno positivi in termini di risposta attesa, mettendo insieme tutti i pazienti la risposta si è attestata intorno al 30%, valore che è stato confermato anche da altri studi, in cui il farmaco - rispetto all'RCT - ha mostrato di agire anche nelle genetiche più sfavorevoli e in caso di malattia extramidollare. D'altra parte» sottolinea «i risultati che belamaf ha avuto come single agent sono molto buoni perché molti altri farmaci in monoterapia non si avvicinano neanche a questi risultati. Quello che secondo me è però il dato più interessante, già evidenziato nel Dreamm-2» aggiunge Zambello «è che in questa quota del 30% dei pazienti responders - anche se si fosse trattato solo di una risposta clinica, inferiore a una risposta parziale - c'era la possibilità che la malattia fosse tenuta sotto controllo per lungo tempo (inteso in termini di molti mesi), tanto che alcuni dei nostri pazienti sono da più di un anno in risposta di buona qualità. Occorre sottolineare che belamaf è un farmaco impiegato in pazienti refrattari a tutte le terapie convenzionali disponibili, in un'area dove non ci sono alternative alla palliazione o al reimpiego di altre terapie con le quali, come è noto, si hanno risposte molto meno buone». Nel corso dell'esperienza clinica con belamaf, prosegue Zambello, «abbiamo imparato anche a gestire molto meglio le complicanze corneali - sulle quali inizialmente gli ematologi non erano esperti - grazie anche alla collaborazione di ottimi oculisti, nel nostro caso del prof. Raffaele Parrozzani che c'è stato di grande aiuto nell'imparare a gestire queste problematiche che permettono di riuscire a mantenere la terapia con il farmaco che, qualora si dimostri efficace, rappresenta veramente un'ancora di salvezza per questi pazienti. D'altronde» aggiunge Zambello «va detto che, qualora non ci sia risposta a questo farmaco, lo si vede molto precocemente, nel senso che se il paziente risponde bene, risponde subito e, circa la durata della risposta, come ripeto qualcuno dei nostri pazienti è in trattamento da più di un anno senza complicanze significative, per qualcun altro ci si è fermati un po' prima mentre una quota di pazienti non ha risposto e sono stati indirizzati ad altre terapie che per fortuna sono state sviluppate anche se non sono ancora disponibili in commercio» (come gli anticorpi bispecifici). Ci sarebbe poi l'opzione delle CarT. «Sono un'arma formidabile. Il problema è la disponibilità, non essendo 'on-the-shelf' (acquistabili pronte all'uso); quindi un ostacolo deriva dall'approvvigionamento: ci sono cioè centri deputati a ricevere i linfociti prelevati dal paziente e ingegnerizzare il linfocita chimerico. Inoltre, vi sono limiti di impiego correlati all'età del paziente (non sopra i 75 anni, là dove si trova la maggior parte della popolazione colpita da RRMM) ed elevati costi di produzione». Zambello sottolinea inoltre che l'uso delle CarT richiede l'ospedalizzazione, con una logistica più impegnativa, così come gli anticorpi bispecifici necessitano di un breve ricovero, mentre belamaf, nella stessa esperienza di Padova, «anche in persone molto anziane, ha un'ottima tollerabilità, permette una gestione non problematica della tossicità corneale, senza casi di danno oculare irreversibile o di sospensione del trattamento per disturbi visivi, grazie alla possibilità di mantenere l'efficacia del MoAb mediante dilazioni o riduzioni delle dosi. Dunque, è un farmaco dalle grandi potenzialità, confermate dalla 'real life'. In Italia» aggiunge Zambello «è in corso una raccolta dati nazionale (che coinvolge centri grandi e piccoli, con piccole casistiche) sui risultati ottenuti con questo farmaco, coordinata dalla dott.ssa Maria Teresa Petrucci (ematologa dell'Azienda Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma)». L'obiettivo degli studi in corso è quello di portare belamaf in seconda se non in prima linea di terapia, secondo il concetto che se un farmaco funziona lo si deve usare il prima possibile, afferma Zambello. In quest'ottica, spiega, vanno interpretati i molteplici studi di combinazione in corso, «dove si cerca il farmaco più adatto da associare a belamaf e anche la sequenza migliore da utilizzare in questi pazienti».
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